La comunione dei beni legale è il regime volto a determinare la condivisione da parte di coniugi degli incrementi di ricchezza conseguiti da marito e moglie anche per effetto dell’attività separata di ciascuno di essi. La riforma del diritto di famiglia ha previsto la comunione dei beni quale regime legale applicabile in mancanza di un’apposita convenzione, non escludendo la possibilità per i coniugi di adottare un regime di separazione dei beni qualora cambiassero idea volontariamente durante il matrimonio o per cause di forza maggiore legate ad un eventuale separazione e/o divorzio, sia esso consensuale e non.
Regime di separazione dei beni
Fino al 1975 era il regime di separazione dei beni ad essere legale, ovvero, in sede di matrimonio, quest’ultimo veniva automaticamente applicato alle coppie. In seguito, con la riforma del diritto di famiglia, legale è divenuto il regime di comunione dei beni, dando per scontato che quando in un matrimonio c’è armonia, ciò che è di uno è dell’altro, a prescindere dai titoli di proprietà o dal regime patrimoniale della famiglia scelto dalla coppia. Capita spesso così che uno solo dei coniugi sia titolare di un bene, poi utilizzato da entrambi. Al giorno d’oggi, la longevità dei matrimoni è sempre meno duratura e tale fenomeno con il passare del tempo sta portando alla luce, in maniera sempre più evidente, problematiche sempre più “innovative”.
A chi vanno attribuite le spese coniugali in caso di divorzio? E il rimborso all’ex come va determinato?
Possiamo affermare con certezza innanzitutto che nel momento in cui avviene la separazione coniugale, viene a scindersi anche la comunione legale che riguarda appunto il regime legale della famiglia (art 191 c1.c.c).
Il coniuge che, in caso di separazione, ottiene dal giudice l’assegnazione della casa coniugale di proprietà dell’altro coniuge, è tenuto (pur non essendone il proprietario) a pagare le spese di gestione della casa (per esempio le utenze dell’acqua e della luce), comprese quelle condominiali ordinarie e il riscaldamento; invece gli oneri fiscali sono a carico del proprietario.
La Cassazione ha stabilito però che il coniuge assegnatario dell’abitazione ha il diritto di usufruirne gratuitamente senza versare alcun corrispettivo all’ex, ma deve pagare le spese correlate a detto uso, a meno che il giudice non le abbia espressamente poste a carico del coniuge proprietario (Cass. sez. I, sent. n. 18476 del 19 settembre 2005.).
Diverso è il discorso riguardante le spese di “gestione straordinaria” della casa (ristrutturazione dell’immobile, installazione di impianti di videosorveglianza, videocitofono, etc), quest’ultime saranno a carico del proprietario effettivo dell’abitazione in caso di singolo proprietario, saranno invece suddivise “pro quota” in caso di comproprietà dei i due coniugi, non essendo mutato il titolo di comproprietà nonostante il divorzio.
Scioglimento della comunione legale dei beni
Qualora i coniugi decidano di procedere allo scioglimento della comunione legale dei beni, nell’art. 192. C.C. viene stabilito che ciascun coniuge deve rimborsare all’altro le somme prelevate dal patrimonio comune qualora queste ultime non siano state utilizzate al fine di soddisfare i bisogni familiari. Per rendere con maggior chiarezza l’articolo sopraindicato si può fare riferimento alla sentenza n 18749 del 2004 nella quale è stata esclusa l’esistenza di un diritto del coniuge non proprietario del bene ad ottenere un’indennità per i lavori eseguiti a proprio carico poiché questi ultimi non erano necessari per il soddisfacimento di alcun bisogno familiare.
Nel momento in cui le spese effettuate da uno dei due coniugi siano avvenute per adempimento dell’obbligo di contribuzione (ex art. 143 c.c.) non sussiste il diritto al rimborso, ma invece se i lavori apportati all’abitazione hanno accresciuto il valore dell’immobile dell’esclusivo coniuge proprietario, allora l’altro coniuge ha il diritto di un indennizzo equo come sancisce l’articolo 1150 del c.c. quale compossessore. Secondo quest’ultimo articolo si sancisce anche che al coniuge non proprietario non spetta l’integrale restituzione delle somme versate, ma una mera indennità da valutarsi alla luce dei parametri indicati dall’art. 1150 c.c. purché dimostri che tali esborsi non siano avvenuti per il mero soddisfacimento di un interesse familiare.
Certo è che, se tali spese, apportate all’abitazione, non vengono ritenute urgenti e necessarie, nonostante abbiano apportato miglioramenti all’immobile, non saranno oggetto di rimborso da parte del proprietario dello stesso, sia ai sensi dell’art. 1150 c.c. che dell’art. 936 c.c. e dell’art. 1595. Tuttavia, deve riconoscersi al comodatario lo “ius tollendi” delle modifiche apportate, ovvero l’eliminazione di quest’ultime. Ai sensi dell’art. 192 comma 3 c.c. potranno essere oggetto di rimborso esclusivamente le spese non inerenti ad acquisti rilevanti ai sensi dell’art. 177 a) c.c., ma solo ad azioni volte al miglioramento o all’incremento degli stessi.
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